Terapia dell'osteoporosi

tra "vacanza terapeutica"

e scarsa aderenza

L’osteoporosi è una patologia caratterizzata da una alterazione quantitativa e qualitativa del tessuto osseo con conseguente aumento della fragilità scheletrica e quindi del rischio di fratture, rischio che oggi è facilmente quantificabile nel singolo soggetto con algoritmi specifici, quali ad esempio il DEFRA (http://defra-osteoporosis.it).

 

Osteoporosi: perché trattare?

Il trattamento farmacologico dell’osteoporosi è indicato solo quando il rischio di frattura viene ritenu-to inaccettabilmente elevato. Ne consegue quindi che la terapia dovrebbe essere mantenuta fintanto questo rischio non si è ridotto al punto da divenire accettabile. Se consideriamo, ad esempio, patologie quali l’ipertensione arteriosa o il diabete, è comunemente raccomandato e universalmente accettato, che la terapia farmacologica possa essere procrastinata nel tempo anche in maniera indefinita. Que-sto invece non succede nel campo dell’osteoporosi anche se, a differenza del diabete e dell'iperten-sione, i farmaci per l’osteoporosi possono associarsi a benefici strutturali persistenti.

Purtroppo la percezione del problema fratture viene spesso sottostimato rispetto ad altre patologie, quali ad esempio quelle cardiovascolari (CV), anche a fronte di studi (italiani) che hanno chiaramente dimostrato come nei soggetti ultra45enni le ospedalizzazioni da frattura di femore sono sovrapponi-bili a quelli per infarto del miocardio, ma inducono una spesa significativamente superiore (Piscitelli et al., 2007) e quindi rappresentano un problema economico e sociale addirittura maggiore (Figura 1).

Figura 1.

Il carico sociale ed economico dell’osteoporosi ed in particolare delle fratture di femore è superiore (in termini di costi diretti per ospedalizzazione) a quello legato all’infarto del miocardio, soprattutto nei soggetti anziani.

La percezione del problema è tuttavia decisamente differente.

 

Perché sospendere la terapia?

La ridotta percezione del problema fratture rappresenta una delle cause di scarsa motivazione a pro-seguire la terapia per l’osteoporosi, ma non è certamente l’unica.

Molti dei farmaci per la terapia dell’osteoporosi di documentata efficacia sul rischio di frattura sono disponibili ormai da parecchi anni.

Per alcuni di questi farmaci, come ad esempio gli analoghi del paratormone, come il teriparatide, la durata della terapia è di per sé limitata a 24 mesi. Questa scelta basata inizialmente su motivazioni di safety relative a dubbi, poi non confermati, di teratogenicità rimane confermata per il rischio che il teriparatide, come del resto tutti i farmaci anabolizzanti anche in via di sviluppo (anticorpi anti-sclerostina) possano alla lunga favorire una crescita di tessuto osseo non auspicabile (ad esempio gli osteofiti dell’artrosi). Malgrado ciò va sottolineato che vi è ormai amplissimo consenso sulla necessità che al più presto dopo la fine del trattamento con teriparatide (o analoghi) venga avviato un tratta-mento con anti-riassorbitivi al fine di preservare e potenziare i benefici acquisiti (Adami et al., 2008).

Nel caso dei farmaci antiriassorbitivi (bisfosfonati, estrogeni, SERM, denosumab) non è invece prevista alcuna limitazione specifica sulla durata del trattamento. Il meccanismo d’azione di questi farmaci si basa sulla loro capacità di ridurre il turnover osseo. In questa maniera essi assicurano sia l’aumento della mineralizzazione scheletrica che la prevenzione della perdita di massa ossea postmenopausale. L’effetto antifratturativo non dipende solo da questi due seppur importanti, effetti indotti, ma anche direttamente dalla soppressione del turnover “per se” prodotta dal farmaco (Whitaker et al., 2012) e per questo, almeno dal punto di vista razionale, la terapia con questi farmaci non dovrebbe mai essere interrotta.

La limitazione della durata del trattamento in questo caso è in relazione alla presenza di potenziali effetti collaterali nel lungo termine che rendono necessaria una valutazione del rapporto rischio-beneficio nel singolo paziente.

È questo il caso del rischio di tumori per la terapia ormonale e, più recentemente, il rischio di trombo-embolismo e reazioni cutanee con il ranelato di stronzio e il rischio di osteonecrosi della mandibola (ONJ) e di fratture sub-trocanteriche per i bisfosfonati. Va detto che questi ultimi sono eventi avversi estremamente rari che non sono in grado di scalfire il favorevole rapporto tra rischi e benefici che la terapia assicura, ma che hanno avuto un impatto notevole sulla classe medica e che impongono importanti valutazioni nel singolo soggetto.

 

Sospensione della terapia: quali rischi?

Quando si vuole affrontare il tema della sospensione della terapia per l’osteoporosi si deve prendere in considerazione in primo luogo i rischi connessi a questo tipo di scelta. Le conseguenze della sospensione del trattamento non sono infatti uguali per tutti i farmaci e sono in gran parte ben note grazie ai risultati emersi dalla estensione degli studi di dose finding e registrativi delle diverse molecole.

I dati a disposizione sull’alendronato dimostrano che alla sospensione della terapia (dopo 5 anni) si assiste al persistere a lungo termine degli effetti positivi sulla densità minerale ossea (Bone Mineral Density: BMD) lombare e femorale con valori che alla fine dei 10 anni di studio sono comunque si-gnificativamente inferiori a quelli raggiunti dai pazienti che hanno continuato la terapia per tutto il tempo (Black et al., 2006; Schwartz et al., 2010). Dal punto di vista metabolico il turnover osseo valutato mediante i marker ossei tende a salire con un andamento più rapido nei primi sei mesi dopo la sospensione e una fase più lenta con ripristino dell’originale turnover osseo pre-trattamento entro 5 anni (Black et al., 2006; Schwartz et al., 2010). Questa seconda fase più lenta di ritorno al turnover basale è quella che giustifica anche l’effetto coda evidenziato a livello densitometrico. L’alendronato appare così un farmaco estremamente interessante anche dopo tanti anni di commer-cializzazione. Infatti tra i farmaci della nota 79 rimane quello in grado di ridurre in maniera maggiore il rischio di ogni tipo di frattura (vertebrale, non vertebrale e femorale) e per di più è quello che assicura, alla sospensione, un effetto coda più persistente per quanto attiene il turnover osseo, i valori di BMD e di conseguenza il rischio di frattura.

Infatti (a parte lo zoledronato, che è però di stretta pertinenza ospedaliera) gli altri bisfosfonati dispo-nibili per l’osteoporosi, ibandronato e risedronato, hanno un effetto coda molto più limitato per cui turnover osseo e i valori di BMD tornano ai valori basali già entro un anno dalla sospensione (Eastell et al., 2011; Ravn et al., 1998).

Nel caso di altri anti-riassorbitivi, quali ad esempio gli estrogeni e i SERM (raloxifene, bazedoxifene), alla sospensione sia il turnover osseo (in poche settimane) e i valori di BMD (alcuni mesi) ritornano rapidamente ai valori iniziali.

Le conseguenze della sospensione del trattamento saranno quindi estremamente differenti a seconda del farmaco fino ad allora utilizzato. Infatti l’effetto protettivo (sul turnover osseo, sulla massa ossea e sulle fratture) delle terapia eseguita si esaurirà quasi immediatamente con estrogeni e SERM, dopo pochi mesi con risedronato e ibandronato e dopo 1-2 anni con alendronato. Questo effetto protratto della protezione assicurata dall’alendronato è quindi una caratteristica peculiare che ne amplifica ulte-riormente i vantaggi farmaco-economici anche se resta ancora da definire quali siano i pazienti in cui la sospensione del trattamento sia davvero una scelta percorribile.

 

Sospensione della terapia: quali pazienti?

Al momento di decidere se sospendere o meno un trattamento preventivo non è sufficiente considera-re l’efficacia del trattamento eseguito e l’eventuale esistenza di un effetto coda, ma si deve per forza valutare anche l’entità del rischio presente nel nostro paziente.

Lo studio FLEX includeva complessivamente 662 pazienti trattati con alendronato per 10 anni e 437 trattati in media per i primi 5 anni e poi tenuti in placebo. Alla fine non si sono evidenziate differenze rilevanti tra i due gruppi per quanto riguarda le fratture prese nella loro totalità; tuttavia è emerso un significativo effetto protettivo (di circa il 55%) del trattamento continuativo riguardo le fratture vertebrali cliniche: quelle cioè associate ad una sintomatologia dolorosa così evidente da portare alla diagnosi (Figura 2) (Black et al. 2006).

 

Figura 2.

Nello studio FLEX emerge cha nei pazienti che hanno seguito la terapia per 10 anni (rispetto quelli che si sono fermati dopo 3-6 anni) a fronte di un apparente piccolo vantaggio densitometrico (+3.8% alla BMD lombare dopo 5 anni) si ottiene anche una rilevante protezione dalla fratture (-55% fratture vertebrali cliniche).

 

In realtà, quando i dati relativi anche alle fratture non vertebrali sono stati analizzati suddividendo i pa-zienti in relazione alla severità dell’osteoporosi al momento della inclusione nello studio FLEX è emerso chiaramente come nei pazienti con osteoporosi secondo la OMS (T score al femore <-2,5) il prosegui-mento della terapia con alendronato comportava una riduzione significativa anche del rischio di fratture non vertebrali del 50% (Schwartz et al., 2010). Questi risultati portano con sé informazioni fondamentali anche per la pratica clinica e sono infatti alla base delle raccomandazioni pubblicate recentemente dal National Institutes of Health (Whitaker et al., 2012). Dopo 3-5 anni di terapia con alendronato si può pensare ad una “vacanza terapeutica” solo nei pazienti in cui il rischio di frattura è basso o si è abbas-sato proprio per effetto della terapia eseguita.

Al contrario non si deve sospendere la terapia in pazienti con una o più fratture osteoporotiche pregresse o in cui i valori di BMD sono ancora compatibili con diagnosi di osteoporosi (T-score <-2,5) categorie in cui rientrano tutti i pazienti in cui è in quel momento applicabile la nota 79! In questi pazienti ad alto rischio infatti la prosecuzione della terapia garantisce non solo una riduzione del rischio di fratture vertebrali, ma anche una protezione significativamente superiore per le fratture non-vertebrali.

Il messaggio è quindi molto semplice, qualora un paziente abbia ancora motivazioni cliniche attive (fratture multiple, dato densitometrico, terapia steroidea, ecc.) sufficienti per accedere alla nota 79 i vantaggi assi-curati dalla terapia rendono inutilmente rischioso pensare alla “vacanza terapeutica”. In ogni caso dopo l’eventuale sospensione una rivalutazione del rischio non può essere procrastinata più di 1 anno per evitare che il paziente perda rapidamente tutto quanto aveva in precedenza ottenuto con la terapia stessa.

 

Durata della terapia e aderenza terapeutica: cosa cambia?

Il livello di aderenza alla terapia è un parametro che dovrebbe essere sempre quantificato soprattutto nel paziente osteoporotico in quanto è ormai indubbio che con una aderenza media al trattamento inferiore all’80% si perde gran parte della protezione assicurata dal farmaco (Penning-van Beest et al., 2008). Appare quindi evidente che l’individuazione del paziente in cui è possibile sospendere la terapia dipende anche dal livello di aderenza alla stessa. A fronte di aderenza terapeutica insufficiente (inferiore all’80%) la sospensione non è mai indicata dal momento che il paziente in realtà la terapia non la ha mai realmente fatta!

Ma quali sono le motivazioni principali che portano alla scarsa aderenza terapeutica nell’osteoporosi? Una analisi approfondita è stata eseguita alcuni anni fa in un vasto studio italiano (Rossini et al., 2006) (Figura 3). Se analizziamo la Figura 3 appare chiara l’importanza del ruolo del medico che può incidere in maniera sostanziale su alcune delle cause principali di abbandono della terapia, quali la perdita di motivazione (secondo posto) e le preoccupazioni sulla sicurezza (terzo posto). Il medico deve quindi saper ben spiegare il razionale e gli obiettivi della terapia e tranquillizzare il paziente sui rischi connessi alla stessa che sono in genere del tutto trascurabili. Va sottolineato come la scomodità della assunzione non sia tra i primi motivi di sospensione (a differenza di quello che spesso si pensa) e che il vero problema sia invece quello degli effetti collaterali che è chiamato in causa da circa 1 paziente su 4 di quelli che sospendono la terapia.

 

 

Figura 3.

Questo studio italiano dimostra che la causa maggiore di sospensione del trattamento per l’osteoporosi (1 pz su 4) è legata a presenza di effetti collaterali.

Generici cosa cambia?

 

Generici cosa cambia?

Come abbiamo già detto, molte delle terapie per l’osteoporosi sono ormai disponibili da molti anni con conseguente scadenza del brevetto e disponibilità di formulazioni generiche. Uno studio ha voluto valutare in una grande coorte di pazienti (oltre 32.000) la persistenza in trattamento con bisfosfonati confrontando 2 formulazioni branded (alendronato e risedronato) con quelle generiche di alendronato (Sheehy et al., 2009). I risultati sono riportati nella figura 4 e documentano come non vi sia alcuna reale differenza tra le due formulazioni branded mentre si rileva una (cospicua e significativa) maggiore percentuale di abbandono nei pazienti che iniziano un trattamento con formulazioni generiche (+25%). Quale può essere la giustificazione di questo dato? Una possibile risposta la troviamo in un altro lavoro che ha invece studiato quale impatto abbia il passaggio da formulazione branded ad una generica in una popolazione compliante. Questo cambio di formulazione in pazienti che precedente-mente tolleravano la terapia si è associata ad una elevata incidenza di eventi avversi (soprattutto a carico dell’apparato digerente superiore) che hanno portato all’abbandono del trattamento (Figura 5) (Grima et al., 2010) sollevando forti dubbi non tanto sulla equivalenza farmacologica, ma su quella “clinica”.

 

 

Figura 4.

Differente persistenza in trattamento con bisfosfonati settimanali. Le formulazioni generiche sono gravate da una evidente e significativa maggiore percentuale di abbandono (+25%) rispetto le formulazioni branded.

 

Conclusioni

La terapia dell’osteoporosi è mirata a ridurre il rischio di frattura e va avviata a fronte di un rischio non accettabile. Per questo motivo l’eventuale “vacanza terapeutica” può avere senso solo quando gli effetti positivi del trattamento hanno ridotto la probabilità di frattura a livelli accettabili. Diventa pertanto fondamentale quantificare questo rischio sia per identificare il soggetto da trattare, che per poter selezionare il paziente in cui si può temporaneamente sospendere la terapia, e quando è invece opportuno riprendere il trattamento.

Va comunque sottolineato come il reale problema della gestione dell’osteoporosi non sia quello della “vacanza terapeutica”. Una recente pubblicazione basata sul registro Danese conferma che meno del 3% dei pazienti con osteoporosi arriva a fare una terapia di lungo termine ed in genere con una percentuale di aderenza al trattamento del tutto insoddisfacente (Abrahamsen 2012 )! In realtà già nel primo anno di terapia una larga fetta di pazienti sospende la cura (Netelenbos et al. 2011) (Figura 6) rendendola di fatto del tutto inefficace.

Per questo motivo più che preoccuparsi della trascurabile percentuale di pazienti che davvero fanno la terapia a lungo termine, il vero obiettivo del medico deve essere quindi quello di cercare di convincere la maggioranza dei soggetti a proseguire il trattamento in maniera corretta per tutto il tempo neces-sario evitando tutte le possibili cause di perdita di compliance.

 

Figura 5.

Pazienti che hanno avuto eventi avversi e che hanno abbandonato il trattamento dopo essere passati da formulazione branded (ben tollerata) a formulazione generica.

Figura 6.

Studio olandese che dimostra come nel primo anno di terapia orale per l’osteoporosi vi sia una percentuale di sospensione di oltre il 50%.

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

N. 12/2017 - MedTOPICS - Periodico Quindicinale

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