L’endometriosi è una patologia ginecologica benigna cronica, caratterizzata dalla presenza di tessuto endometriale al di fuori della cavità uterina. Si tratta di una delle più comuni patologie ginecologiche, che colpisce circa il 10% delle donne in età riproduttiva ed è diagnosticata nel 20-50% delle donne con problemi di infertilità.
L’endometriosi è responsabile di una sindrome clinica che include progressiva insufficienza ovarica, infertilità e menopausa precoce ed è associata a sintomi specifici come cefalea, dolore pelvico cronico, dismenorrea e dispareunia.
L’impatto socioeconomico di tale patologia è notevole, sia per la significativa riduzione della qualità della vita delle donne affette sia per i rilevanti costi associati alla diagnosi e al trattamento e alla perdita di produttività scolastica/lavorativa.
Ciononostante, l’endometriosi è una delle patologie caratterizzate da un intervallo di tempo tra comparsa della sintomatologia e diagnosi inaccettabilmente lungo. Inoltre, la diagnosi definitiva richiede procedure chirurgiche invasive, che peraltro possono non identificare le lesioni profonde nelle aree subperitoneali, e non sono ancora disponibili test che consentano una diagnosi precoce.
Tra le numerose teorie che sono state proposte nel corso degli anni per spiegare il meccanismo patogenetico dell’endometriosi, quella che ancora oggi riscuote i maggiori consensi è la teoria metastatica di Sampson, che prevede l’impianto extrauterino di cellule endometriali a causa di un reflusso tubarico di sangue mestruale.
Recentemente, il gruppo di ricerca degli Autori, sulla base di osservazioni sia su feti umani di sesso femminile sia su animali, ha suggerito che l’endometriosi è causata da alterazioni molecolari, genetiche e/o epigenetiche, dei meccanismi responsabili del corretto sviluppo del sistema genitale femminile, durante le fasi iniziali dell’organogenesi.
Inoltre, il gruppo ha identificato mediante studi di proteomica un piccolo numero di proteine espresse in maniera differente nel sangue di donne affette da endometriosi rispetto alle donne sane. Questi dati sono stati confermati in un contesto differente per almeno una di tali proteine, Zn-alfa2-glicoproteina, che è stata proposta dagli Autori come un potenziale marker diagnostico di endometriosi.
Il gruppo, inoltre, partendo dall’osservazione di un elevato livello di espressione dell’ormone antimulleriano (AMH) nelle cellule stromali e ghiandolari delle aree di endometriosi, ha focalizzato l’attenzione su tale ormone e ne ha proposto l’utilizzo come “mezzo di contrasto” specifico nella risonanza magnetica (RM) per l’identificazione di foci di endometriosi.
In particolare, un anticorpo coniugato con gadolinio e specifico per l’AMH si è dimostrato in grado di illuminare specificamente, nello studio RM, un trapianto di cellule di endometriosi umane nel tessuto sottocutaneo di topi nude senza provocare fenomeni di tossicità. Una conferma nella donna di tali osservazioni migliorerebbe significativamente la gestione dell’endometriosi, consentendo una migliore quantificazione e localizzazione delle lesioni prima della chirurgia e faciliterebbe l’identificazione della malattia residua dopo la chirurgia.
Un’ulteriore problematica dell’endometriosi è rappresentata dal trattamento, in quanto le attuali strategie terapeutiche sono basate su trattamenti invasivi o solo sintomatici, con la conseguenza che spesso sono associate a recidiva o ad effetti indesiderati. Il gruppo ha investigato un possibile utilizzo terapeutico dell’AMH, in un sistema di modello in vitro di linea di cellule endometriosiche umane immortalizzate, che mostrano proprietà fisiologiche di cellule endometriali in termini di fenotipo ed espressione funzionale di recettori per estrogeni e progesterone, senza anomalie cromosomiche.
Lo studio su tale modello ha dimostrato che il trattamento dell’endometriosi con AMH è in grado di inibire la proliferazione cellulare e indurre l’apoptosi. Tali effetti possono essere spiegati dall’interferenza con la produzione endogena di estrogeni, meccanismo fondamentale per la sopravvivenza dei foci di endometriosi extrauterini. In particolare, l’AMH clivato inibisce l’attività del CYP19, enzima chiave per la conversione degli steroidi C19 in estrogeni.
In conclusione, le nuove evidenze emerse dalla ricerca degli autori propongono nuovi meccanismi patogenetici e target molecolari per la diagnosi precoce e il trattamento che, se confermate da ulteriori studi, potrebbero avere significative implicazioni cliniche.