Il tumore della prostata rappresenta il primo tumore maligno per incidenza e la seconda causa di morte per tumore nella popolazione maschile. In stadio localizzato, la sopravvivenza a 5 anni supera il 90%, mentre nelle forme metastatiche è intorno al 30% (1).
Il trattamento primario solitamente consiste nella prostatectomia radicale (RP) o nella radioterapia (RT). Successivamente, il dosaggio dell’antigene prostatico-specifico (PSA) diventa il principale biomarker per monitorare eventuali recidive (2), come quella biochimica (BCR), che interessa circa il 30% dei pazienti, con un tasso di mortalità del 16% (3). Questo nuovo incremento del PSA può precedere la comparsa di metastasi a distanza, ma non necessariamente porta a malattia clinicamente rilevante. Perciò, la gestione della BCR è complessa, con l’obiettivo di ritardare la comparsa di metastasi, ma evitando un over-treatment di pazienti che non ne necessitano. Questa revisione si concentra sul management attuale dei pazienti con recidiva biochimica e sulle future prospettive.
Un problema sempre più frequente è rappresentato dai pazienti che presentano esclusivamente una recidiva biochimica (PSA relapse) dopo terapia locoregionale (in prevalenza chirurgia o radioterapia con intento radicale) (4). Nei pazienti sottoposti a prostatectomia radicale si dovrebbe conseguire un azzeramento del PSA dopo circa 6 settimane dall’intervento e la definizione di recidiva biochimica dopo chirurgia più comunemente accettata prevede, come cut-off, il valore di 0,2 ng/mL e almeno due determinazioni successive con valori in incremento (4).
Dopo la diagnosi di recidiva biochimica, per cercare di stabilire se l’incremento del PSA sia indicativo di una recidiva anche a livello sistemico, notevole importanza viene data ai seguenti parametri: tempo intercorso tra la risalita del PSA e il trattamento locoregionale; parametri cinetici del PSA (PSA doubling time, PSA-DT); stadio patologico alla diagnosi e Gleason score1-3 (4). Si ritiene, infatti, che i pazienti che presentino un tempo a risalita del PSA inferiore a 1 anno, quelli comunque con un PSADT <10 mesi, quelli con malattia extra-prostatica alla diagnosi e quelli con Gleason score >7, siano con più probabilità affetti da una recidiva di malattia (subclinica) a livello sistemico e non siano, pertanto, candidati ideali a trattamenti di tipo (esclusivamente) loco-regionale (4).
I gruppi di rischio dell’EAU per la recidiva biochimica di carcinoma prostatico localizzato e localmente avanzato prevedono un rischio basso (PSA <10 ng/ml e GS <7; ISUP grado 1); intermedio (PSA 10–20 ng/ml o GS 7; ISUP grado 2/3) e alto (PSA >20 ng/ml o GS >7; ISUP grado 4/5) (5).
La RT “di salvataggio” è un’opzione terapeutica in presenza di risalita (o persistenza) del PSA. Ovviamente questa indicazione si applica ai pazienti che non siano stati trattati precedentemente con RT adiuvante (4). Tuttavia, rimane difficile individuare i pazienti che possono essere trattati con RT da sola, eventualmente associata a terapia ormonale, ovvero per i quali possa essere appropriato un atteggiamento di tipo attendistico (4). Probabilmente i pazienti nei quali è comunemente considerata quest’ultima opzione sono quelli a miglior prognosi (Gleason =6, intervallo libero >12 mesi, PSADT >10 mesi) (4).
Il ruolo dell’imaging nel paziente con BCR è significativo se porta a un cambiamento nella strategia terapeutica.
L’imaging tradizionale (TC e scintigrafia ossea) spesso non è in grado di diagnosticare la ripresa di malattia nelle sue fasi iniziali. La resa diagnostica della scintigrafia ossea è limitata nei pazienti asintomatici con BCR dopo RP, con una probabilità di risultati positivi <5% quando i livelli di PSA sono <7 ng/ml. Analogamente, anche la TC mostra una capacità diagnostica modesta, con risultati positivi nell’11-14% dei pazienti asintomatici con BCR (6). Un contributo importante potrebbe arrivare dalle nuove tecniche di imaging. La PET/TC con colina ha buona sensibilità e specificità (da 86% a 93%), ma dipendenti dai livelli di PSA: dopo RP la percentuale di rilevamento è del 5-24% per PSA <1 ng/ml, che aumenta al 67-100% per PSA >5 ng/ml (7).
La PET/TC PSMA (antigene prostatico specifico di membrana) sembrerebbe essere la più sensibile, specialmente con PSA <1 ng/ml (8). La metanalisi condotta da Perera et al. ha aggiornato i fattori predittivi per BCR correlando l’aumento del PSA con la probabilità di identificare lesioni a distanza tramite 68Ga-PSMA PET/TC (33% per PSA <0,2 ng/ml e 97% per PSA >2 ng/ml) (9). Tuttavia, gli studi sono in gran parte retrospettivi e manca ancora uno standard terapeutico basato su questo tipo di imaging.
Ad oggi, le opzioni terapeutiche per i pazienti che sviluppano BCR sono legate al trattamento primario e includono: radioterapia di salvataggio (SRT) e terapia di deprivazione androgenica (ADT), mentre la prostatectomia di salvataggio (SRP) trova ancora poco riscontro nella pratica clinica. Il timing relativo alla RT dopo RP è stato oggetto di discussione negli anni. I 4 maggiori studi focalizzati sulla radioterapia adiuvante (ART) (SWOG 8794, EORTC 22911, ARO96-02 e FinnProstate) hanno messo in evidenza una riduzione del 20% nella comparsa di BCR, mentre solo lo SWOG 8794 riportava benefici riguardanti la sopravvivenza complessiva e libera da metastasi (HR 0,72; 95% CI 0,55-0,96; p=0,023 e HR 0,71; 95% CI 0,54-0,94; p=0,016) (10-13).
Tuttavia, questi studi presentavano diverse limitazioni. Uno studio retrospettivo su una coorte multi-istituzionale di 26118 pazienti per un follow-up mediano di circa 8 anni, ha evidenziato una minore mortalità per tutte le cause nei pazienti sottoposti ad ART rispetto a SRT, con Gleason score ≥8, malattia extraprostatica (≥pT3) e/o linfonodi positivi (pN1) (14).
Una recente metanalisi di Bhindi et al. riporta significativi benefici nella sopravvivenza libera da BCR e recidiva locale (HR 0,47; 95% CI 0,41-0,54 e HR 0,54; 95% CI 0,39-0,73), ma con incertezza sulla sopravvivenza libera da metastasi e senza apparenti benefici sulla sopravvivenza complessiva (HR 0,79 e 0,90) (15). Gli studi che confrontano SRT e ART (RADICALS, REVES, GETUG-AFU 17), hanno mostrato tassi simili di sopravvivenza liberi da BCR (85% vs 88% nel RADICALS, 86% vs 87% nel RAVES, 92% vs 90% nel GETUG), con complicanze genitourinarie e gastrointestinali maggiori nei bracci trattati con l’adiuvante (16-18).
Data l’eterogeneità di questi studi, una successiva metanalisi (ARTISTIC) ha cercato di rendere i dati più omogenei, senza però riportare differenze in termini di sopravvivenza a 5 anni libera da eventi (89% vs 88%), con un 60% di pazienti nel gruppo SRT che nei 5 anni di follow-up, non ha ricevuto nessun tipo di trattamento (19). Ad oggi, un atteggiamento di attesa e l’utilizzo del trattamento di salvataggio rappresentano lo standard terapeutico di scelta. Alcuni studi supportano l’associazione di SRT e ADT. Nel trial RTOG 9601, 760 uomini ricevettero bicalutamide o placebo con SRT, mostrando una sopravvivenza complessiva a 12 anni del 76% vs 71% rispettivamente (HR, 0,77; 95% CI, 0,59-0,99; p=0,04) (20).
Il secondo trial, GETUG AFU-16, ha analizzato l’utilizzo dell’analogo LHRH (Goserelin) o placebo associati a SRT in 743 pazienti, evidenziando miglioramenti nella sopravvivenza libera da progressione (HR, 0,73; 95% CI, 0,54-0,98; p=0,0339) e nel controllo della BCR, ma senza differenze significative nella sopravvivenza complessiva a 12 anni (86% vs 85% rispettivamente nei due gruppi) (21). Tuttavia, il beneficio di questa associazione tra SRT e ADT può variare in base a fattori come il PSA pre-RT, il Gleason score e la positività dei margini di resezione: per pazienti ad alto rischio di progressione (PSA ≥0,7 ng/ml e GS ≥8) la SRT può essere combinata con 2 anni di ormonoterapia e in quelli a rischio intermedio (PSA <0,7 ng/ml e GS =8) con 6 mesi, mentre pazienti a basso rischio (PSA <0,5 ng/ml e GS <8) possono ricevere solo SRT (22). Un 40% dei pazienti con rischio intermedio-alto ricevono la RT come primo trattamento (23). Tuttavia, il 20-60% di questi può sviluppare BCR, la cui gestione in questo setting è ancora poco chiara per mancanza di dati consistenti in letteratura (24).
La strategia terapeutica ottimale per i pazienti con BCR è ancora indefinita, ma nuove prospettive potrebbero offrire soluzioni future. Tra i biomarkers istopatologici più promettenti, ricordiamo l’antigene CD169, localizzato sui macrofagi linfonodali, che sembra avere un ruolo importante nella soppressione dell’attività di questi ultimi da parte di alcuni tumori. Stromvall et al. hanno evidenziato che pazienti con PCa e bassi livelli di CD169 presentavano una ridotta aspettativa di vita rispetto a quelli con livelli più elevati, sebbene non sia stata stabilita una chiara relazione con la BCR (25).
Invece, livelli aumentati di neuropilina 1, recettore extracellulare che interagisce con il VEGF, importante per la neoangiogenesi tumorale e coinvolta nello sviluppo della resistenza all’ADT e nella progressione verso le forme resistenti alla castrazione, sembrano essere correlati a valori più alti di Gleason score e TNM score, predisponendo alla ricorrenza biochimica dopo radioterapia (26).
Inoltre, l’utilizzo delle nuove terapie anti-androgeniche (enzalutamide, apalutamide, darolutamide), che stanno cambiando la gestione del paziente con PCa metastatico, potrebbe rappresentare una soluzione anche nel paziente con BCR. Studi come il trial STREAM, che ha investigato l’enzalutamide associato a RT e ADT tradizionale, ha riportato una sopravvivenza libera da progressione di malattia del 65% (27). O come il trial CARLHA-2/GETUG AFU 33 che ha preso in esame l’associazione di apalutamide con RT e ADT, dimostrando ulteriori buone premesse nel cambiare il paradigma terapeutico per i pazienti con BCR (28).
Il trattamento della recidiva biochimica è ormai da lungo tempo in discussione. Futuri studi sulle terapie ormonali di nuova generazione, nuove tecniche di imaging ed utilizzo della genomica sono necessari per definire una strategia chiara e sempre più personalizzata per il paziente.