Negli ultimi anni le tecnologie di biologia molecolare hanno ampliato sempre di più le possibilità di avere informazioni sulle condizioni del feto sia mediante lo studio del DNA fetale nel circolo materno (quindi con un semplice prelievo di sangue alla mamma), sia mediante lo studio di cellule fetali (quindi su tessuti fetali prelevati con l’amniocentesi o il prelievo di villi coriali). Nella pratica clinica la situazione è molto complessa in quanto si tratta di informare la donna/coppia:
––sulle differenze fra un test di screening ed un test diagnostico
––sulle patologie che i vari test possono identificare
––quale è il grado di accuratezza del test per quella specifica patologia
––che cosa si può fare per essere certi che il feto abbia/non abbia quella specifica malattia
––che cosa si può fare qualora risulti che il feto è malato.
È necessario, quindi, che la donna abbia uno/più specialisti che possano accompagnarla in un percorso diagnosticoassistenziale che inizia con la fase di informazione ma deve continuare fino al termine, cioè con la consegna dell’esito del test e le scelte che da questo derivano. In realtà, le novità nel campo dei test di screening e di diagnosi sono pubblicizzate direttamente alle donne con proposta di acquisto su internet Editoriale ed informazioni talora molto distorte: risultati eccezionali, elenchi interminabili di patologie identificate, ecc. Sono messaggi pubblicitari e come tali spesso non corrispondenti a quanto realmente i test possono dare e la donna, in caso di test sospetto o patologico, viene lasciata sola dopo consulenze telefoniche e risultati inviati via mail. Innanzitutto, bisogna precisare la differenza fra:
• test di screening prenatale
che consentono di selezionare, nella popolazione generale, un ristretto gruppo di donne in cui è stato identificato un alto rischio di avere un figlio malato ed alle quali viene offerta la possibilità di effettuare ulteriori indagini (test diagnostici);
• test di diagnosi prenatale
che consentono di formulare la diagnosi cioè di capire se il feto è malato oppure sano, cioè affetto o no dalla patologia per la quale è risultato a rischio elevato in base al test di screening.
La donna, informata sul suo rischio, può quindi decidere se eseguire uno o più test di screening e quindi proseguire il percorso con ulteriori test (diagnostici) che permettano l’identificazione delle patologie per cui è risultata positiva al test di screening. Può comunque decidere, in qualunque fase del percorso, di non proseguire. Eseguire o meno un test di screening oppure un test diagnostico è una scelta che la donna fa dopo essere stata adeguatamente informata sulle potenzialità e sui limiti del test proposto.
Facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire che cosa sono le “patologie congenite”. Circa il 97% dei neonati è sano ed il 3% dei neonati ha un difetto congenito, cioè presente alla nascita: questo è un dato che coinvolge tutti. Qualunque donna inizi una gravidanza deve sapere che la probabilità di avere un bambino sano è molto elevata (97% appunto) ma anche che ha un rischio che ciò non accada e che questo rischio interessa tutti noi. Vi sono situazioni particolari in cui quella donna/ coppia ha un rischio più elevato di avere un figlio malato di una specifica patologia e questo va valutato caso per caso dall’ostetrica/ginecologo che segue la donna e che valuterà se richiedere la consulenza genetica.
Il genetista può valutare quali accertamenti eseguire, calcolare il rischio di avere un bimbo malato, se è possibile fare dei test per capire se “quel” feto è sano o malato. Nella popolazione generale, cioè nelle donne in cui non è stato identificato alcun fattore di rischio, le patologie fetali ricercate sono:
• le malformazioni
(anomalie strutturali cioè che determinano una modificazione della morfologia del feto) che possono essere identificate con 3 Settembre 2016 l’ecografia. L’ecografia a 19-21 settimane di gravidanza (quella che viene spesso chiamata “ecografia morfologica” ma che è più corretto chiamare “ecografia di screening del II trimestre”) consente di diagnosticare circa la metà delle possibili patologie. Uno studio recente europeo in realtà segnala che solo il 31% delle malformazioni è stato correttamente diagnosticato durante la gravidanza.
Se l’ecografia del II trimestre è normale, il rischio del 3% viene quindi ridotto ad 1-1,5%. Alle donne in cui sono stati identificati fattori di rischio specifico precedenti la gravidanza (anamnesi personale e familiare, patologia materna) oppure insorti durante la gravidanza (sospetto all’esame ecografico di screening o al test di screening biochimico, assunzione di farmaci, patologie infettive, ecc.) è proposta l’ecografia diagnostica (comprendendo in questo termine la cosiddetta “ecografia di II livello”, l’ecocardiografia fetale ed eventuali ulteriori accertamenti quali la valutazione dopplerflussimetrica);
• le anomalie cromosomiche
o aneuploidie (segnatamente la trisomia 21 o sindrome di Down). Per conoscere il rischio che una donna ha di avere un figlio affetto da trisomia 21 è possibile eseguire dei test di screening ma l’unico modo per sapere se il feto è malato o sano è studiare il cariotipo su cellule del feto ottenute con:
––il prelievo dei villi coriali (Chorion Villus Sampling - CVS)
––l’amniocentesi.
Trattandosi di procedure invasive (Diagnosi Prenatale Invasiva - DPI), che sono gravate da un rischio di aborto (circa 1% di rischio aggiuntivo di aborto), esse sono offerte alle donne che presentano un rischio specifico.
È quindi ragionevole, come suggerito da numerose Società Scientifiche e Linee guida nazionali ed internazionali, proporre a tutte le donne, indipendentemente dall’età anagrafica, un test di screening prima di procedere all’esecuzione di test diagnostici invasivi. È essenziale una corretta e completa informazione sui vari test di screening affinché la donna/coppia possa liberamente scegliere se effettuare o meno il test proposto, senza essere influenzata dalle convinzioni dell’operatore. Il consenso all’esame deve essere libero e non orientato. L’informazione pre-screening deve essere offerta a tutte le donne, preferibilmente all’inizio della gravidanza dall’operatore sanitario, medico e/o ostetrica, a cui la donna si è rivolta e può essere fatta singolarmente (colloquio tra un operatore, medico o ostetrica, e una donna/coppia) oppure a piccoli gruppi di donne/coppie che effettuano insieme un colloquio con il sanitario. Il primo parametro utilizzato quale strumento di screening per la sindrome di Down, introdotto agli inizi degli anni ‘80, è stata l’età materna, sulla base di un’osservazione fatta già nel 1876 da Fraser e Mitchell che avevano segnalato un’associazione tra la sindrome di Down nel neonato ed età materna avanzata. Nell’ultimo ventennio sono stati introdotti altri marcatori di rischio, biochimici ed ecografici, variamente utilizzati: singolarmente o in associazione, in un unico momento o in tempi successivi nel corso del primo e del secondo trimestre.
Le strategie di screening prenatale per le anomalie cromosomiche, in specifico per la trisomia 21, attualmente disponibili sono:
––il test combinato (o bi-test) che consiste nella “combinazione” (in un algoritmo) del dosaggio su siero materno della PAPP-A (proteina plasmatica A associata alla gravidanza) e della sub-unità beta libera della hCG (free-bhCG), prodotti dal trofoblasto, con la misura della translucenza nucale (Nuchal Translucency - NT), eseguita da un operatore accreditato, a 11- 13 settimane.
––il test integrato che si effettua in due tempi: a 11-13 settimane si eseguono l’esame ecografico con misura di NT (come per il test combinato) ed il dosaggio di PAPP-A; a 15-16 settimane i risultati vengono “integrati” (in un algoritmo) con il tritest. Il calcolo del rischio si esegue solo dopo il secondo prelievo.
––il test integrato biochimico che è il test integrato senza la misurazione della translucenza nucale
––il tritest (o triplo test) che consiste nel dosaggio su siero materno di alcuni prodotti del metabolismo feto-placentare (alfa feto-proteina, estriolo libero e gonadotropina corionica totale: AFP, uE3 e hCG) a 15-18 settimane di età gestazionale con corretta datazione ecografica ed è riservato alle donne che non hanno avuto accesso ai test del I trimestre.
Questi test, complessivamente, identificano 85-90% dei feti con trisomia 21 a fronte di un 5% di test positivi anche se la percentuale di falsi positivi dipende dall’età materna. Non è sempre facile introdurre e spiegare il concetto di “rischio”: deve essere esplicitato che cosa significa nella pratica quel risultato quindi, per esempio, che un rischio di 1 su 100 è più alto di 1 su 1000. Un rischio di 1 su 100 significa che solo 1 feto su 100 con quello stesso risultato del test è affetto, mentre 99 su 100 sono sani e che l’unico modo per sapere se è veramente malato è fare un test diagnostico che, nel caso della sindrome di Down, è lo studio del cariotipo fetale su tessuto coriale (ottenuto con prelievo di villi coriali) oppure su liquido amniotico (ottenuto con l’amniocentesi). Spesso il comparare i due rischi (rischio di avere un figlio malato e il rischio di abortire un figlio sano per le complicanze legate alla procedura invasiva) può aiutare a prendere una decisione, anche se i due eventi negativi hanno significati e pesi ben diversi per la singola donna. La domanda da porre alla donna/coppia è: la preoccupa di più avere un figlio malato oppure avere un aborto come possibile conseguenza di un esame invasivo? Qui si innesca un’ulteriore problematica che è quella del rischio aggiuntivo di aborto legato alla procedura invasiva (prelievo di villi coriali oppure amniocentesi).
Questo rischio è stimato intorno ad 1% e deve essere chiaramente esplicitato alla donna che si tratta di un rischio ottenuto dallo studio di casistiche che confrontano un certo numero di donne che si sono sottoposte alla DPI rispetto ad un gruppo di donne con le stesse caratteristiche che non si sono sottoposte ad alcun test invasivo. Nel singolo caso è spesso difficile, se non impossibile, imputare sicuramente l’aborto alla procedura invasiva perciò è opportuno che la donna sia ben motivata sulle proprie scelte (onde non avere poi sensi di colpa) e si rivolga a centri/ operatori di provata esperienza, pur sapendo che quel rischio aggiuntivo è comunque presente.
Deve essere chiaro che un test di screening non è “giusto”, né “sbagliato”: esso semplicemente esprime il rischio che quel feto ha di essere malato e che solo facendo un ulteriore passo nel percorso, cioè effettuando un test diagnostico è possibile conoscere se il neonato sarà sano o malato. Per questo è fondamentale che i test di screening siano effettuati da operatori e Laboratori con adeguata esperienza e preparazione, che si sottopongono a specifici programmi di verifica esterna di qualità (VEQ) e che vi sia un audit periodico dei risultati ottenuti. Negli ultimi anni a questi test, che si basano sull’integrazione di parametri ecografici e biochimici con l’età materna, si è aggiunto un nuovo test che ricerca e valuta il DNA libero fetale nel circolo materno (NIPT – Non Invasive Prenatal Testing).
È un test che si esegue sul sangue materno da cui viene estratto ed analizzato il DNA fetale presente nel sangue materno (cell free fetal DNA - cffDNA) detto anche “NIPT - Non Invasive Prenatal Testing”, in italiano “Test prenatale del DNA fetale nel circolo materno”.
Tutti i test in commercio consentono di valutare, oltre al rischio per la trisomia 21 (sindrome di Down), anche il rischio per la trisomia 13 e trisomia 18. È possibile, con minore accuratezza, determinare il rischio di anomalie di numero dei cromosomi sessuali, di patologie a carico di altri cromosomi (per esempio 9, 16 e 22), di alcune microdelezioni (pezzettini molto piccoli di DNA fetale che possono mancare ed essere causa di sindromi genetiche gravi). La quantità di DNA fetale estratto (fetal fraction o frazione fetale) dipende, oltre che dalle caratteristiche del test utilizzato, dall’epoca di gravidanza (può essere usato da 10 settimane compiute di età gestazionale fino a 24 settimane) e dal peso della donna (i migliori risultati si hanno nelle donne di peso inferiore o uguale a 70 Kg). Anche nelle migliori condizioni può succedere che la quantità di DNA fetale non sia sufficiente a fornire una risposta: in tal caso si ripete il prelievo (senza costo aggiuntivo). Se, anche dopo il secondo prelievo, il test risulta “non informativo”, va discussa l’opzione dell’amniocentesi in quanto nelle gravide in cui vi è una bassa quantità di DNA fetale in circolo è stata osservata una maggiore incidenza di anomalie cromosomiche fetali. Il test del DNA fetale non è, al momento, un test diagnostico, ma è un test di screening che ha una maggiore accuratezza (sensibilità e specificità) rispetto ai test di screening finora utilizzati, soprattutto per la trisomia 21. Il test del DNA fetale è in grado di identificare circa il 99% dei feti malati con un numero molto basso (meno di 1%) di risultato positivo: cioè se il test segnala un rischio elevato è molto probabile che il feto sia malato, se il test segnala un rischio basso è molto probabile che il feto non abbia la trisomia 21.
Come per gli altri test di screening, è essenziale una consulenza pre-test che chiarisca alla donna/coppia le informazioni che esso può fornire ed i suoi limiti. Il test del DNA fetale va effettuato solo dopo aver eseguito l’ecografia con la misurazione della translucenza nucale, quindi a partire da 11 settimane. In presenza di una translucenza nucale ispessita, per esempio uguale o superiore a 3 mm, oppure di una malformazione fetale rilevata ecograficamente è opportuno eseguire una consulenza appropriata e proporre un test diagnostico quale lo studio del cariotipo fetale mediante prelievo di villi coriali o amniocentesi. Non tutti i test sono uguali: è opportuno affidarsi a Laboratori i cui risultati siano stati validati clinicamente.
Nel maggio 2015 il Ministero della Salute ha redatto delle Linee Guida su “Screening prenatale non invasivo basato sul DNA (Non Invasive Prenatal Testing – NIPT)” in cui ha definito in modo chiaro ed esaustivo quali sono le informazioni che il test può fornire e le caratteristiche dei Centri e dei Laboratori che effettuano il test. Se la donna in assenza di un fattore di rischio specifico decide, dopo un test di screening positivo oppure come prima scelta, di eseguire una procedura di diagnosi prenatale invasiva, è essenziale che sia informata sui rischi connessi alla metodica e sulle patologie che possono essere ricercate. Normalmente sulle cellule fetali, ottenute da tessuto coriale oppure da liquido amniotico, viene valutato il “cariotipo fetale” cioè il numero e la struttura dei 46 cromosomi. È possibile, però, andare a ricercare altre patologie fetali: si tratta dei “nuovi test di diagnosi prenatale” anche questi molto pubblicizzati su vari siti internet. Come al solito la discrepanza fra quanto viene offerto e le reali possibilità diagnostiche è talora enorme. Partiamo dai termini utilizzati: si parla spesso di “cariotipo molecolare”, in realtà il termine più corretto è “Chromosomal Microarray Analysis - CMA” oppure “arrayCGH”. È un approccio diverso rispetto al cariotipo in quanto con questo metodo non si studia il cromosoma nel suo complesso ma le parti del DNA che lo compongono. Possono essere diagnosticate patologie aggiuntive ma possono anche essere presenti alterazioni che non sono sempre indicative di una patologia fetale, le cosiddette CNV (Copy Number Variations) che comprendono anche situazioni di incerta interpretazione clinica (Variant Of Unknown Significance – VOUS) che richiedono l’interpretazione del genetista e che talora, anche dopo la consulenza genetica, lasciano nella donna/coppia ancora più incertezze.
Allo stato attuale, si ritiene che la CMA non possa sostituire lo studio del cariotipo fetale e che la sua esecuzione, in assenza di una specifica indicazione, non vada offerta in modo indiscriminato. Nel 2014 è stato elaborato un documento congiunto dalle Società di Genetica Umana (SIGU) e di Ecografia Ostetrica-Ginecologica (SIEOG) che definisce le indicazioni e le modalità di utilizzo clinico della CMA.
Un’altra ulteriore indagine eseguibile è ricercare patologie non cromosomiche quali fibrosi cistica, talassemia, ecc. Dal momento che possono nascere bimbi malati solo da una coppia in cui entrambi i genitori sono portatori sani è opportuno valutare, preferibilmente prima che inizi la gravidanza, se i futuri genitori sono portatori della specifica patologia ed eseguire l’indagine prenatale solo alle coppie di portatori. In questo modo si effettua un esame appropriato (solo alle coppie effettivamente a rischio) e con maggiori probabilità di fornire un risultato attendibile (feto sano oppure malato).
I “nuovi” test di screening e di diagnosi prenatale sono sempre di più: si tratta di un campo in continua evoluzione per cui è indispensabile un continuo aggiornamento da parte degli operatori che si occupano di tale argomento per poter fornire alle donne informazioni corrette.
È necessario saper discernere, fra le offerte delle varie ditte, quali sono i test che offrono una attendibilità ed un’accuratezza maggiore. La spinta commerciale è enorme, l’impatto mediatico amplificato da internet è altrettanto ampio e, d’altra parte, l’aspettativa delle donne è molta. Come negare l’evidenza? È ovvio che vorremmo sapere sempre di più sulla nostra salute ed ancora di più della salute dei nostri figli. Ma è indispensabile che “qualcuno”, senza interessi economici, sappia mediare fra la comprensibile richiesta delle donne di conoscere e l’offerta sempre più ampia di test la cui effettiva validità clinica è talora discutibile: questo compito è e deve essere del medico esperto in medicina fetale e non può essere lasciato solo alle informazioni ottenibili sui siti internet.
In un ambito così delicato come quello dei test genetici, ancora di più se eseguiti in epoca prenatale, è essenziale una informazione, una discussione ed un confronto diretto fra il medico e la donna affinché la donna possa effettivamente comprendere che cosa le viene proposto e possa scegliere in modo il più possibile autonomo e consapevole. È altrettanto essenziale che la donna non venga abbandonata ad un certo punto del percorso, ma sia accompagnata, qualunque sia la sua scelta, nelle varie fasi del percorso: informazione/ esecuzione del test/consegna del risultato/accertamenti ulteriori/ scelte successive.