Ipertensione: inquadramento clinico e l’importanza dell’aderenza terapeutica


L’ipertensione arteriosa costituisce un importante fattore di rischio per malattie cardiovascolari e contribuisce alla morte prematura di molti milioni di pazienti ogni anno. Nelle ultime linee guida dell' European Society of Hypertension (ESH) e dell' European Society of Cardiology (ESC), pubblicate nel 2013, l'ipertensione arteriosa viene definita come la presenza di valori di pressione arteriosa sistolica (PAS) ≥ 140 mmHg e/o di pressione arteriosa diastolica (PAD) ≥ 90 mmHg, in base ai risultati di studi randomizzati e controllati (RCT), in cui i pazienti che presentavano tali valori di BP hanno mostrato un beneficio dalla riduzione pressoria indotta dal trattamento (1). Secondo recenti indagini epidemiologiche, la prevalenza complessiva dell'ipertensione arteriosa nella popolazione generale risulta essere tra il 30 e 45%, con un netto incremento con il crescere dell'età.
L’aumento dei valori medi di pressione arteriosa (PA) si correla allo sviluppo di morbilità/mortalità cardiovascolare (CVD) .Le linee guida ESC/ESH sottolineano che la scelta iniziale del trattamento antiipertensivo deve essere basata sia sull’entità dell’incremento dei valori di PA che sul concomitante livello di rischio cardiovascolare (CV) totale (Figura 1) (1).

Figura 1. Stratificazione del rischio cardiovascolare (CV) globale in basso, moderato, elevato e molto elevato in relazione ai valori di PAS e PAD, nonché alla prevalenza di fattori di rischio (FR), danno d’organo asintomatico (DO), diabete, stadio della nefropatia cronica (CKD) o della malattia cardiovascolare (CVD) sintomatica. I soggetti con pressione arteriosa (PA) clinica normale-alta, ma elevati valori di PA al di fuori dell’ambiente medico (ipertensione mascherata), hanno un rischio CV simile a quello riscontrato nell’iperteso. I soggetti con valori di PA clinica elevati ma normale PA al di fuori dell’ambiente medico (ipertensione da camice bianco), in particolare se non vi è associato diabete, DO, CVD o CKD, presentano un minor rischio rispetto all’iperteso stabile per gli stessi valori di BP (1)CV=cardiovascolare; CVD=malattia cardiovascolare; CKD=nefropatia cronica; DO=danno d’organo FR=fattore di rischio; IA=ipertensione arteriosa; PAD=Pressione arteriosa diastolica; PAS=Pressione arteriosa sistolica

Va tuttavia riconosciuto che il controllo della PA rimane ancora inadeguato in molti pazienti ipertesi, sia per una certa inerzia clinica nel modificare/intensificare il trattamento a fronte del non raggiungimento degli obiettivi pressori raccomandati dalle Linee Guida, sia per problemi di aderenza terapeutica da parte dei pazienti (2).
L’ipertensione arteriosa non controllata si associa ad un significativo incremento della morbilità e mortalità CVD-correlate nonché di sviluppo di nefropatia/insufficienza renale. Esistono ampie evidenze che un adeguato controllo della PA si associa ad una riduzione significativa del rischio di stroke, insufficienza cardiaca, cardiopatia ischemica e danno renale cronico. Tuttavia, studi epidemiologici condotti in molti Paesi sottolineano che l’ipertensione è ancora largamente sotto-trattata. I motivi dell’ancora ampiamente inadeguato controllo della PA sono molteplici. Tra di essi, vanno ricordati l’età dei pazienti, la non aderenza terapeutica, fattori socioeconomici e lo stesso grado di “familiarità” dei medici con le Linee Guida per il trattamento (2).
Un aspetto cruciale nel successo del trattamento antiipertensivo è rappresentato dall’aderenza terapeutica del paziente, che nel lungo termine può influenzare anche la stessa prognosi. L’aderenza alla terapia è un fattore chiave che determina il successo degli interventi preventivi per la riduzione del rischio cardiovascolare. L’aderenza alla terapia è stata associata a miglioramento dei valori pressori, riduzione dei ricoveri e contenimento dei costi sanitari globali. L’efficacia, la tollerabilità e la minore complessità del regime di trattamento antipertensivo sono i fattori che più comunemente migliorano il grado di aderenza terapeutica.
A tale proposito, va segnalato che, in uno studio condotto su un’ampia popolazione di oltre 160.000 pazienti ipertesi seguiti per un periodo di follow-up di circa 6 anni, il trattamento iniziale dell’ipertensione con la terapia di associazione antiipertensiva si è correlato ad una migliore aderenza e ad un miglior controllo pressorio nel lungo termine (3).Il razionale di scelta della terapia di associazione è basato sia sulla maggiore efficacia legata agli effetti additivi dei singoli componenti l’associazione, sia sull’impatto favorevole su alcuni processi fisiopatologici dell’ipertensione, come ad esempio l’inibizione di alcuni meccanismi di contro-regolazione della pressione arteriosa.La terapia di associazione, inoltre, deve essere efficace e sicura anche in pazienti che, oltre all’aumento dei valori pressori, presentano altre condizioni cliniche come ad esempio obesità, sindrome metabolica, diabete mellito, malattia cerebrovascolare, cardiopatia coronarica, insufficienza renale con o senza proteinuria. Requisiti indispensabili per l’associazione di antiipertensivi di diverse classi farmacologiche rappresentati dal meccanismo di azione diverso e complementare dei singoli componenti, dall’effetto antiipertensivo superiore a quello ottenuto da ciascun singolo componente in monoterapia e dalla riduzione dell’incidenza degli effetti collaterali di ciascun singolo componente (1).


Bibliografia

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N.4/2014 - MedTOPICS - Periodico Quindicinale

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