Introduzione
Circa l’1-2% della popolazione mondiale è affetto da fibrillazione atriale (FA) e la sua prevalenza aumenterà nei prossimi 50 anni a causa del progressivo incremento dell’età media della popolazione1,2.
La prevalenza di FA è infatti massima nei soggetti di età superiore agli 80 anni arrivando a sfiorare il 10-15%3,4,5. Tuttavia, una stima accurata della prevalenza può risultare complicata a causa dei numerosi casi a decorrenza asintomatica che spesso danno segno di sé soltanto in seguito ad eventi tromboembolici6. L’ictus cardioembolico rappresenta la complicanza più temibile di tale aritmia. Nei pazienti affetti da FA il rischio di ictus è aumentato di circa 5 volte rispetto alla popolazione generale7. Il principale meccanismo fisiopatologico alla base del tromboembolismo in corso di FA è rappresentato dalla stasi ematica a livello dell’atrio sinistro la cui contrazione risulta inefficace favorendo la formazione endocavitaria di trombi (individuati nel 90% circa dei casi a livello dell’auricola sinistra)7,8,9. La progressiva dilatazione atriale sinistra, associata alla presenza dell’aritmia, contribuisce ad aumentare ulteriormente la stasi incrementando il rischio tromboembolico10 . Tuttavia, anche altri meccanismi contribuiscono allo sviluppo di complicanze tromboemboliche in oltre la metà dei casi di FA: placche aortiche complicate, pervietà del forame ovale ed aneurisma del setto interatriale11,12.
Negli ultimi decenni, l’introduzione della terapia anticoagulante orale con antagonisti della vitamina K (AVK) ha contribuito a ridurre l’incidenza di ictus cardioembolico di circa il 60% 13. Tuttavia, gli AVK (warfarin e acenocumarolo) presentano importanti limitazioni quali una stretta finestra terapeutica ed un’alta variabilità dose-risposta, con conseguente necessità di un monitoraggio continuo mediante test di coagulazione. Tali limitazioni hanno portato la ricerca a sviluppare nuove molecole con un profilo farmacodinamico e farmacocinetico più favorevole: gli inibitori diretti del fattore IIa (dabigatran) o del fattore Xa (rivaroxaban, apixaban, edoxaban), comunemente chiamati “nuovi anticoagulanti orali” o NAO. A differenza degli AVK che agiscono a più livelli della cascata emocoagulativa, i NAO interferiscono in maniera puntiforme inibendo direttamente un singolo fattore della coagulazione. Tali farmaci, rispetto al warfarin, si sono dimostrati almeno altrettanto efficaci nella prevenzione dell’ictus e presentano un profilo di sicurezza migliore essendo associati ad un tasso di emorragie intracraniche significativamente inferiore e di riduzione significativa dei sanguinamenti fatali (dimostrata da rivaroxaban). Per tali motivi, le attuali linee guida della Società Europea di Cardiologia, consigliano i NAO come i farmaci preferiti in caso di indicazione a terapia anticoagulante orale. Tuttavia, numerosi ostacoli ne impediscono, ad oggi, un uso estensivo: la limitata esperienza clinica, il timore di iniziare una terapia “nuova” per cui non sono indicati controlli periodici della coagulazione, i dubbi legati all’eventuale presenza di insufficienza renale od epatica, le eventuali interazioni farmacologiche, motivazioni di natura farmacoeconomica ecc., ma anche la resistenza da parte dei pazienti in parte dovuta alla doppia somministrazione giornaliera, in parte legata alla sensazione di essere maggiormente tutelati dai controlli ematici dell’INR.
Sulla scorta di tali Osservazioni è sorta la necessità di sviluppare un programma di formazione sul territorio rivolto ai Medici di Medicina Generale al fine di sensibilizzare alla gestione della terapia anticoagulante in genere, ed a quella con NAO in particolare. La medicina generale rappresenta infatti il primo approdo del paziente nella gestione della propria patologia ed è quindi fondamentale che il medico sia consapevole dell’eventuale necessità di un avvio tempestivo di terapia anticoagulante orale. Dopo aver valutato le indicazioni, il Medico di Medicina Generale dovrà avvalersi della collaborazione dello specialista, per la definizione della terapia e l’attivazione del piano terapeutico.
E proprio dalla stretta collaborazione tra medicina specialistica e medicina generale che si potrà ottenere una migliore aderenza terapeutica garantendo una più efficace prevenzione di eventi tromboembolici ed emorragici.
N. 08/2017 - MedTOPICS - Periodico Quindicinale
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