L'importanza di una migliore aderenza
nella terapia ipolipemizzante

L’aderenza alla terapia è un comportamento individuale che identifica la contemporanea presenza di compliance (assumere i farmaci ai dosaggi indicati e con la frequenza prescritta) e di persistenza (continuare la cura per il periodo di tempo consigliato al trattamento). L’appropriata effettuazione di una terapia è quindi determinata sia dalla aderenza che dalla persistenza: un paziente può assumere il farmaco al dosaggio stabilito, ma interrompere il trattamento (mancata persistenza) oppure può proseguire la cura nel tempo, ma non assumere il farmaco al dosaggio previsto (mancata aderenza).(2)
La mancata aderenza è un fenomeno diffuso tra i pazienti che presentano multipli fattori di rischio o affetti da patologie cardiovascolari e riguarda tutte le principali categorie di farmaci cardiovascolari: antipertensivi, statine, betabloccanti, antiaggreganti ed anticoagulanti; si stima che non sia aderente il 50% dei pazienti trattati in prevenzione primaria ed il 30% in prevenzione secondaria. L’aderenza alla terapia implica un ruolo attivo del paziente nel processo decisionale a cui si deve accompagnare una efficace comunicazione con il professionista sanitario (non solo medico).(1)
Una scarsa aderenza alla terapia si traduce in un incremento di morbilità e mortalità e nell’ambito delle patologie croniche, quale la malattia cardiovascolare, rappresenta un problema di grande importanza. Il processo di miglioramento dell’aderenza richiede una relazione dinamica tra pazienti, operatori sanitari ed istituzioni finalizzata ad un uso appropriato delle risorse farmacologiche per il mantenimento del migliore stato di salute possibile nei singoli individui.

Nei pazienti con ipercolesterolemia l’elevata aderenza terapeutica e la persistenza al trattamento con statine, comportano una cospicua riduzione della morbilità cardiovascolare e conseguentemente, un importante contenimento della spesa sanitaria legata alla malattia cardiovascolare stessa; infatti, per tale problematica (ma non solo) la spesa sanitaria è fortemente legata alla voce “ricoveri”, per cui una riduzione del manifestarsi di patologia cardiovascolare, attraverso un maggiore impiego di farmaci, non può altro che tradursi in un’abbattimento dei costi nel loro complesso (3). Una corretta aderenza al trattamento farmacologico ipolipidemizzante rappresenta il principale fattore per ottenere non solo una significativa riduzione della morbilità e mortalità CV ma anche per ottimizzare l’uso delle risorse economiche. I risultati delle meta-analisi di alcuni trial clinici randomizzati indicano che la precoce attuazione della terapia intensiva con atorvastatina (80 mg/die) nei pazienti ospedalizzati con sindrome coronarica acuta (SCA) può rappresentare un’opzione terapeutica più efficace rispetto ad un trattamento ipolipemizzante moderato, in termini di riduzione degli eventi cardiovascolari. Ciononostante, nella pratica clinica spesso si osserva come, dopo la dimissione, in questi pazienti venga effettuato il passaggio (switch) ad un trattamento con statine dotate di minore efficacia. Uno studio osservazionale ha valutato l’impatto di questo “switch” terapeutico su alcuni importanti outcome clinici, in una popolazione di 1321 pazienti consecutivi (886 uomini; età media 71.1±8.7 anni), ospedalizzati per SCA, ai quali al momento della dimissione è stato prescritto il trattamento con atorvastatina alla dose di 80 mg/die. Lo studio, aveva come endpoint primario combinazione di mortalità da tutte le cause, il re-infarto miocardico acuto (re-IMA) non fatale e lo stroke invalidante non fatale.(4)

Nel corso dei 12 mesi di follow-up, 486 pazienti (36.8%) proseguivano con il trattamento prescritto al momento della dimissione ospedaliera (atorvastatina 80 mg/die), mentre 278 pazienti (21%) interrompevano completamente il trattamento (la durata media del tempo intercorso tra la dimissione alla sospensione della terapia era di 37 giorni). I restanti 557 pazienti (42%) passavano dalla terapia intensiva con atorvastatina ad un trattamento moderato con lo stesso farmaco (dosaggio inferiore) o ad un’altra statina con potenza inferiore, entro un intervallo di tempo medio di 28 giorni. In particolare, 327 pazienti (58.7%) intraprendeva terapia con simvastatina (dosaggio medio 27 mg/die), 87 (15.6%) con pravastatina (dose media 40 mg/die), 41 pazienti effettuavano lo switch a fluvastatina (dosaggio medio 80 mg/die), mentre gli altri 102 pazienti di questo gruppo proseguivano il trattamento con atorvastatina, ma a un dosaggio inferiore (dose media 24 mg/die). La decisione di modificare il regime terapeutico da parte del medico di medicina generale del paziente era nel 56% dei casi indotta dall’insorgenza di eventi indesiderati, peraltro di lieve entità, mentre nel restante 44% dei casi lo “switch” era dovuto a timori riguardanti la sicurezza (potenziale rischio di danno epatico o muscolare) o al fatto di ritenere il dosaggio iniziale di atorvastatina eccessivamente elevato per le esigenze cliniche del paziente. Nel corso dei 12 mesi di follow-up, l’endpoint primario dello studio si è verificato in 331 casi e l’analisi statistica multivariata ha evidenziato che, dopo aggiustamento per i potenziali fattori confondenti, lo “switch” terapeutico rappresenta un fattore predittivo indipendente per l’endpoint primario (rapporto di rischio 2.7, IC al 95% 1.6-6.4, p=0.006). Peraltro quanto più precocemente, rispetto alla dimissione ospedaliera, veniva modificato il trattamento tanto più elevato era il rischio di eventi cardiovascolari (Figura 1). In definitiva, i risultati di questo studio indicano come il trattamento con dosi intensive di atorvastatina (80 mg/die), a lungo termine, abbia permesso di ridurre l’incidenza di eventi clinici avversi in pazienti ospedalizzati per SCA.(4) Ciò conferma che l’aderenza alla terapia ipolipemizzante non è solo un fattore “cosmetico” in quest’ambito, ma è bensì un fattore fondamentale per la prevenzione cardiovascolare.

 

Figura 1. Rapporti di rischio nel tempo in base all’analisi mutivariata (aggiustata per i diversi fattori confondenti) relativi all’associazione tra lo switch terapeutico dalla terapia intensiva con atorvastatina (80 mg/die) alla terapia moderata con lo stesso farmaco a dosaggio minore o con altre statine e l’end point primario rappresentato dalla combinazione di mortalità da tutte le cause, il re-infarto miocardico acuto (re-IMA) non fatale e lo stroke invalidante non fatale (eventi clinici maggiori).(4)

 

Bibliografia
1) Cramer JA, Roy A, Burrel A, Fairchild CJ, Fuldeore MJ, Ollendorf DA, et al. Medication compliance and persistence: terminology and definitions. Value Health 2008; 11:44-47
2) Sabate E. Adherence to long-term therapies. Evidence for action. Geneva, World Health Organization, 2003
3) Sokol MC, McGuigan KA, Verbrugge RR, Epstein RS. Impact of medication adherence on hospitalization risk and health care cost. Med Care 2005; 43:521-30
4) Colivicchi F, Tubaro M, Santini M. Clinical implications of switching from intensive to moderate statin therapy after an Acute Coronary Syndrome. Int J Cardiol (2010), doi:10.1016/j.ijcard.2010.07.006

 

 

 
                 
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